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Esiste un modo corretto di rappresentare gay, lesbiche, trans, queer, bi, plus al cinema?

Se invece di essere nato negli anni Ottanta ed essere stato giovane nei Novanta-Duemila e un po’ meno giovane dagli anni Dieci in poi, avessi avuto quarant’anni quando Raffaella Carrà sfidava da casa i telespettatori ad indovinare l’esatto numero di fagioli in un vaso di vetro o quando le Bangles cantavano Walk Like an Egyptian, mi sarei scandalizzato nel vedere al cinema persone non etero rappresentate quasi sempre in chiave comica e marginale?

Da appassionato di cinema e frequentatore del mondo LGBTQ+ mi sono posto da un po’ di tempo questo quesito, soprattutto riguardo al cinema italiano che non ha conosciuto film iconici e di svolta e film manifesto in materia di diritti civili come Philadelphia oppure anche solo di costume come Tootsie  dall’altra parte dell’ Oceano Atlantico.

A tal proposito, se si guarda a come il cinema italiano ha declinato l’omosessualità, vengono in mente bei film non a tematica con nel cast alcuni personaggi, perlopiù uomini effemminati, il cui orientamento sessuale non viene approfondito ma viene spesso liquidato con una battuta tagliente del protagonista, spesso maschio, macho ed assai etero.

Ricordate ne Il sorpasso di Dino Risi il domestico Occhio Fino che, tutto urletti e con un nomignolo fin troppo elaborato, accoglie all’ ingresso di una assolata cascina toscana Vittorio Gassman e Jean Luis Trintignant nel ferragosto del ’62?

Non sapevo esistessero anche checche di campagna!” esclama Gassman dinanzi ad un esterrefatto ed impacciato Trintignant, esterrefatto non tanto per la battuta omofoba ma perché non se ne era mai accorto prima.

Oppure ne “Gli Onorevoli” di Sergio Corbucci, film del ’63 (“Vota Antonio La Trippa“”) , il personaggio del regista televisivo Salvatore Dagnino con le mani sempre in aria e la risata isterica, interpretato da Walter Chiari, truccare un imbarazzato Peppino De Filippo nella parte di un austero politico del Movimento Sociale per nulla avvezzo alle telecamere ed al cerone?

Passando agli anni Settanta e Ottanta questa tendenza alla marginalità si conferma, ma nel contempo tende a svilupparsi e diventare più articolata, forse sull’ onda della liberazione sessuale e dei colorati e molto plasticati anni Ottanta che rendono l’esclusivo alla portata di tutti ma tendono ancora a guardare con un po’ di sospetto e freddezza chi non è chiaramente etero.

Pensiamo a commedie di quegli anni come “La Patata Bollente” , film del 1979 di Steno nel quale Edwige Fenech e Massimo Ranieri ingaggiano un combattuto braccio di ferro per conquistare il cuore di Renato Pozzetto, operaio comunista (apparentemente) tutto di un pezzo, fieramente etero ma colpito da quel ragazzo così dolce, determinato ed educato, Ranieri, salvato da un pestaggio omofobo dal prode Pozzetto. Alla fine, non spoilero nulla essendo passato al cinema più di quattro decenni fa, Pozzetto, dopo un momento di sbandamento per Massimo Ranieri tutto boa e strass (omosessualità e travestitismo erano e sono ahimè spesso ancora considerati sinonimi) viene recuperato all’eterosessualità dalla bella fidanzata (bisessualità questa sconosciuta!) ed al povero Massimo Ranieri non resta che emigrare ad Amsterdam dove, lontano da italici occhi indiscreti, potrà liberamente svelarsi e vivere serenamente aprendo, lungo i titoli di coda, un locale di Drag Queen (come a dire “vai a fare l’ omosessuale all’estero, qui non è aria”).

la patata bollente – film (1979)Altro film di quegli anni e dalla trama abbastanza inverisimile, è “Nessuno è perfetto” dell’ 81 di Pasquale Festa Campanile, nel quale Renato Pozzetto si innamora di Ornella Mutidonna trans con un passato da paracadutista nell’esercito tedesco, la cui identità nel corso del film viene quasi sempre declinata al maschile.

Mi viene in mente poi, ma sono forse eccezioni che confermano una linea di tendenza rappresentativa della comunità LGBTQ+ non proprio felicissima, “Una giornata particolare” di Ettore Scola (anno ’77), nel quale, tra le altre cose, viene rappresentata la violenza del regime fascista contro gli omosessuali e l’incontro tra due marginali solitudini, quelle di una casalinga maltrattata dal marito e dalla vita e di uno speaker dell’ EIAR messo alla porta dal regime a causa della propria sessualità; oppure la serie di film de “Il vizietto” (di Eduard Molinaro e Georges Lautner) nella quale Ugo Tognazzi e Michel Serrault instaurano divertenti e comiche schermaglie sentimentali che diversi  anni dopo saranno omaggiate con eleganza, intelligenza e grande affetto verso il padre da Maria Sole Tognazzi in “Io e Lei”.

Esistono poi film dove l’omosessualità viene trattata solo in alcune scene ed in modo non necessariamente parodistico seppur in un film comico: mi viene in mente una scena del film “Grandi Magazzini”, film dell’ 86 di Castellano e Pipolo ( sì caro lettore proprio quelli di Attila  Flagello di Dio!)  nella quale Renato Pozzetto (ancora lui!) , nel ruolo di un fattorino, consegna un vestito da sera ad un ricco e distinto signore gay appena lasciato dal compagno per una donna (il tradimento anche qui porta secondo una linea narrativa già sopra esaminata sempre sulla retta via dell’eterosessualità). Il fattorino dopo un equivoco sul genere dell’ ex compagno del ricco signore ed un iniziale imbarazzo, ne accetta l’invito a pranzo per diventarne  tempo dopo il nuovo  compagno. Qui secondo me la scena sarebbe anche non omofoba, non fosse per la chiusura, nella quale Pozzetto, in vestaglia di seta dal ponte della nave, umilia il suo ex capo, divenuto fattorino a sua volta. Il sottotesto, neanche troppo velato, è che il personaggio di Pozzetto abbia deciso di fidanzarsi con il ricco signore più per prendersi una rivincita sociale che non per un sincero sentimento.

Gli anni Novanta non sono forieri di grandi novità in materia di rappresentazione dei gay nei media: sono gli anni in cui impazza la televisione commerciale a base di donne oggetto, veline, spintarelle, letterine, insomma una tv nella quale lo  spettatore deve immedesimarsi nel concorrente del gioco a premi di turno, blandito da procaci ragazze che gli ballano attorno, docili agli ordini del conduttore. Ben poco quindi è lo spazio per chi non si riconosce in quel modello e nel frattempo deve sorvolare sulle frequenti allusioni omofobe rivolte al povero Solange ospite fisso a Buona Domenica.

I Novanta e Duemila sono anni avari di rappresentazioni al cinema per gay, lesbiche e trans se si eccettuano i film di Alessandro Benvenuti, orfano dei Giancattivi, come Belle al bar e I miei più cari amici, CommediaSexy di Alessandro D’Alatri, oppure il personaggio di Selvaggia innamorata della ballerina di flamenco Natalia Estrada ne “Il Ciclone” di Pieraccioni. Degni di nota nei primi anni ‘00 anche film come “Quasi Quasi” oppure “Ecco Fatto”, quest’ultimo raro film italiano a tematica L sulla gelosia. Piccolo film per appassionati di quegli anni è “Naja”,film drammatico di Angelo Longoni nel quale in una scena il personaggio del militare di leva, interpretato da Adelmo Togliani, fuggito dalla caserma dove sta prestando servizio militare, arrivato in stazione, si fa prestare un cellulare da un signore gay che cerca di adescarlo… nulla di nuovo quindi sotto il sole del 1997. Altro film di nicchia non a tematica ma con alcuni sottotesti LGBTQ+ è “Teste rasate”, film di Claudio Fragasso del 1993 sul neonazismo a Roma, nel quale in alcune scene forte si sente la tensione sessuale tra i due protagonisti interpretati da Giulio Base e Gianmarco Tognazzi.

C’è però, tra un Vacanze di Natale ’95 con una giovanissima Cristiana Capotondi innamorata di Dylan di Beverly Hills e un Chicken Park nel quale Jerry Calà decise autarchicamente di auto-dirigersi, sostituendo ai dinosauri  galline alte venti metri, un film, bello o brutto che lo giudichiate, che mi ha molto colpito in quegli anni: sto parlando di “Uomini uomini uomini” di Christian De Sica, anno 1995.

Questo film secondo il mio parere costituisce un tentativo isolato, sincero e direi anche affettuoso, nonché abbastanza realistico, di rappresentare attraverso la commedia e la farsa, a volte un po’ scollacciata, la quotidianità di un gruppo di amici gay romani di più di venticinque anni fa. Il film, con nel cast attori di grande rilievo come Leo Gullotta, Massimo Ghini, Alessandro Haber e lo stesso De Sica, descrive in modo ironico e divertito la vita dei quattro protagonisti, vita che non stupisce e tantomeno scandalizza lo spettatore perché rappresentata nella propria ordinarietà e ripetitività, tra lavoro, cene, flirt e uscite di gruppo in locali gay.

Questo film secondo me rappresenta una sliding door del cinema italiano civile, ciò che poteva essere e non è stato: dopo Uomini Uomini Uomini, i produttori ed i registi sensibili alla rappresentazione della comunità LGBTQ+, avrebbero potuto, e forse anche sentito il dovere di declinare, come nel film di De Sica, il tema dell’omosessualità non più come freak o come marginale questione in un film che parla d’altro, ma come tema non straordinario da sviluppare centralmente  oppure assieme ad altri temi in un film che parla anche d’altro; un film cioè nel quale ad esempio la protagonista è lesbica ma ciò non è considerato necessariamente il centro del film stesso, perché magari la protagonista è una affermata professionista o la villain della storia e la si vede con la propria compagna nella quotidianità domestica per poche o molte scene che nulla aggiungono di determinante alla trama, un po’ come il personaggio dello spacciatore gay Marcione, interpretato da Michele Placido nel film drammatico “Quattro Bravi Ragazzi” di Claudio Camarca del 1993.

Dopo la possibile e non sfruttata svolta del film di De Sica, il cinema italiano, seppur con più attenzione per i diritti civili, è sostanzialmente tornato sui binari della rappresentazione marginale oppure all’ opposto monotematica dell’ omosessualità.

Oggi, come ieri o quasi come ieri, l’omosessuale infatti o è il protagonista di un film a tematica LGBTQ+, e gli esempi si sprecano (da “Good as you” di Mariano Lamberti,  e “Come non detto”, di Ivan Silvestrini entrambi del ‘12 a film più di nicchia come “Benzina“, di Monica Stambrini anno ‘01  o “Il richiamo“, di Stefano Pasetto, anno ’09, fino al più recente “Né Romeo né Giulietta” del ’15, bell’esordio alla regia di Veronica Pivetti) oppure è un personaggio che non rende il film LGBT, ma lo rende politicamente corretto, ritenendo in quel caso il regista di dare voce a chi non ne ha a sufficienza, ma forse voleva venire fatto parlare in modo differente. Penso a film dove un solo personaggio del cast non è etero, come ad esempio in “Genitori quasi perfetti”di Laura Chiossone, anno ’19, con Elena Radonicich nella parte di una mamma arcobalenoprocessata e quasi messa sotto accusa dagli eccessi di politicamente corretto degli altri genitori etero durante la festa di compleanno di uno dei loro figli; oppure a “Brave ragazze”di Michela Andreozzi, dello stesso anno, nel quale una delle protagoniste interpreta la parte di una ragazza lesbica ma in modo pressoché avulso dalla trama, oppure ancora i numerosi casi di film come le commedie di Checco Zalone, in cui gli omosessuali, considerati dai registi come degli ideali nipoti del signor Occhio Fino, sono rappresentati come pretesto per una gag, una battuta o una canzone satirica. Collegato a questo ragionamento in chiave di valorizzazione civile di un film non a tematica, merita una menzione il coming out del personaggio di Giuseppe Battiston in “Perfetti sconosciuti” di Paolo Genovese.

A conclusione di questa analisi confesso di non sapere se, come dice l’adagio, si stava meglio quando si stava peggio: ho l’impressione che dagli anni ’60 ad oggi si sia passati dalla marginalità della macchietta del domestico Occhio Fino alla gabbia auto fabbricata dal politicamente corretto del film a tematica pensato non per il grande pubblico ma per la comunità LGBTQ+ che dovrebbe uscire dalla sala più salda nella propria identità ma in realtà solo più autoreferenziale.

Il nostro cinema nel rappresentare l’omosessualità ha conosciuto grandi attori, registi ed interpreti che  in contesti comici come drammatici hanno saputo rendere lo spirito dei tempi: salvo eccezioni un cinema che osa ma non articola, che presenta  film provocazione o fuori dagli schemi ma poi non sente il bisogno di sviluppare una filmografia che in modo non scandaloso ed eccezionale, ma costante, problematico, multi tematico e complesso, dia autenticamente cittadinanza alla nostra comunità, un po’ come quei progetti di vetture di cui viene costruito solo il prototipo dalle linee filanti, avvolgenti e coraggiose che poi però non si ritrovano nel modello di automobile definitivo e commercializzato, spesso soltanto un leggero restyling del precedente.

Autore: Paolo Marconi

Scritto per Il Grande Colibrì
Su gentile concessione di iosonominoranza.it

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